La controversia affronta la questione relativa al diritto di un dirigente medico pubblico di 1° livello, il cui rapporto di lavoro si sia risolto per raggiungimento dell’età pensionabile, di ottenere la monetizzazione delle ferie non godute, affrontando, in particolare la tematica dell’onere della prova sull’onere della dimostrazione della effettiva libertà del medico a decidere in ordine alla fruizione delle ferie.

La sentenza riconosce il diritto del dirigente medico al pagamento delle ferie maturate, iscrivendosi in un orientamento sempre più consolidato della giurisprudenza euro-unitaria (cfr. Corte di Giustizia UE, 6 novembre 2018, causa C-619/16; 18 gennaio 2024, causa C-218/22) e della nostra giurisprudenza di legittimità (sentenze Cass. 21 aprile 2020, n. 7976; Cass., n. 21780/2022; Cass., n. 17643/2023; n. 32807/2023), ribadendo come sia onere dell’Azienda ospedaliera fornire adeguata dimostrazione di avere messo in condizione il dirigente medico di fruire delle ferie annuali retribuite e di averlo invitato, anche formalmente, a farlo, e nel contempo, di averlo informato del rischio che, non fruendo tempestivamente delle ferie, avrebbe perduto il relativo diritto anche in termini di compensazione economica.

 

Sentenza n.11455/2024:

TRIBUNALE DI ROMA

I sezione lavoro

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il dr. Paola Giovene di Girasole presso il Tribunale di Roma, in funzione di Giudice del Lavoro, ha pronunciato la seguente sentenza all’esito dell’udienza di discussione del 7 novembre 2024 nella causa iscritta nel ruolo generale degli affari contenziosi della sezione lavoro, al n. 4735/2024

TRA

yyy, rappresentato e difeso dagli avv.ti Riccardo Chilosi e Paolo De Marco, per mandato in atti, ed elettivamente domiciliato presso il loro studio in Roma, piazza Martiri di Belfiore n. 2;

ricorrente

E

Azienda Ospedaliera xxx, in persona del Direttore Generale p.t., rappresentata e difesa dagli avv.ti xxx, per mandato in atti, ed elettivamente domiciliata presso l’Avvocatura dell’Azienda;

resistente

FATTO E DIRITTO

Con ricorso depositato il 5.2.24 e ritualmente notificato parte ricorrente ha dedotto di aver lavorato dall’1.8.87 al 25.6.22 (data di raggiungimento dell’età pensionabile) alle dipendenze dell’Azienda convenuta, inizialmente come assistente medico e poi, dall’1.1.94, come Dirigente Medico di I livello, in forza di contratto a tempo indeterminato a seguito di superamento di concorso pubblico; di non aver potuto usufruire per ragioni di servizio dell’intero ammontare dei giorni di ferie maturati, pari, alla data del 25.6.22, a complessivi 383 giorni; di non aver ottenuto dall’Amministrazione resistente il pagamento dell’indennità sostitutiva delle ferie non godute, avendo la resistente rigettato la domanda in tal senso formulata dal yyy. Deducendo l’illegittimità del diniego di monetizzazione delle ferie non fruite dal ricorrente per inderogabili esigenze di servizio, ha convenuto in giudizio l’Azienda resistente per ottenere il pagamento integrale della complessiva somma di € 82.907,00, a titolo di indennità risarcitoria per le ferie non godute, oltre al versamento dei relativi contributi previdenziali, oltre interessi e rivalutazione dalle singole scadenze. Con vittoria delle spese di lite.

Si è costituita l’Azienda xxx eccependo l’intervenuta prescrizione quinquennale delle somme richieste in relazione alle ferie maturate antecedentemente al quinquennio di cui all’art. 2948 c.c. e, nel merito, contestando la domanda e chiedendone il rigetto.

Quindi, sulla documentazione in atti, concesso termine per il deposito di note, all’esito dell’udienza del 7.11.24, tenutasi in trattazione scritta ai sensi dell’art. 127 ter c.p.c., la causa è stata decisa come da dispositivo e contestuale motivazione.

Va innanzitutto rigettata l’eccezione di prescrizione quinquennale parziale, formulata dall’Azienda xxx, atteso che, secondo la più recente uniforme giurisprudenza di legittimità, “La prescrizione del diritto del lavoratore all’indennità sostitutiva delle ferie e dei riposi settimanali non goduti decorre dalla cessazione del rapporto di lavoro, salvo che il datore di lavoro non dimostri che il diritto alle ferie ed ai riposi settimanali è stato perso dal medesimo lavoratore perché egli non ne ha goduto nonostante l’invito ad usufruirne” (Cass.n.17643/2023). La Suprema Corte con tale pronuncia, all’esito di un’ampia ricognizione delle fonti normative eurocomunitarie ed interne, ha infatti mutato il proprio precedente orientamento, fondato sull’opposta affermazione che l’indennità sostitutiva delle ferie e dei riposi settimanali non goduti, quanto al profilo della prescrizione ad essa applicabile, avesse natura non retributiva ma risarcitoria, con conseguente soggezione alla prescrizione ordinaria decennale, decorrente anche in pendenza del rapporto di lavoro (Cass. civ., sez. lav., 11.5.11 n. 10341; Cass. civ., sez. lav., 11.9.13 n. 20836; Cass. civ., sez. lav., 29.1.16 n. 1757).

Nel caso in esame alcuna prova è stata fornita dall’Azienda di aver invitato il ricorrente a fruire delle ferie, ottenendone un rifiuto. Va poi rilevato come, contrariamente a quanto sostenuto dalla resistente, il yyy non abbia fruito di alcuna aspettativa nel corso del rapporto, sicchè tale comportamento, a prescindere dalla questione della sua eventuale rilevanza, non è in alcun modo imputabile al dipendente quale impedimento da lui apposto al godimento delle ferie.

Ciò posto, la fattispecie in esame è regolata, quanto alle ferie maturate dal ricorrente prima dell’entrata in vigore del d.l. 95/2012, convertito in l. 135/2012, dall’art. 10, comma 2, del d. lgs. 66/2003, secondo cui “Il predetto periodo minimo di quattro settimane non può essere sostituito dalla relativa indennità per ferie non godute, salvo il caso di risoluzione del rapporto”. Con riferimento a tale disciplina, la Suprema Corte ha ripetutamente ribadito, in relazione al carattere irrinunciabile del diritto alle ferie, garantito anche dall’art. 36 Cost. e dall’art. 7 della direttiva 2003/88/CE (v. la sentenza 20 gennaio 2009 nei procedimenti riuniti c-350/06 e c-520/06 della Corte di giustizia dell’Unione europea) che, ove in concreto le ferie non siano effettivamente fruite, anche senza responsabilità del datore di lavoro, al momento della cessazione del rapporto di lavoro al lavoratore spetta l’indennità sostitutiva delle stesse, indipendentemente dall’esistenza di eventuali difformi previsioni della contrattazione collettiva (Cass. civ., sez. lav., 9.7.12, n. 11462; Cass. civ., sez. lav., 26.7.13, n. 18168). In particolare, la giurisprudenza di legittimità ha enunciato tale principio in riferimento alle clausole del contratto collettivo Regioni ed enti locali, triennio 1994-1997, ed ha in proposito affermato che queste, nella parte in cui prevedono che le ferie non siano monetizzabili, vanno interpretate nel senso che, in caso di mancata fruizione delle ferie per causa non imputabile al lavoratore, non è escluso il diritto di quest’ultimo all’indennità sostitutiva. A tali conclusioni la Suprema Corte è pervenuta sulla considerazione dell’irrinunciabilità del diritto alle ferie, ed in applicazione del principio di conservazione del contratto. Sicché, in definitiva, all’atto di cessazione del rapporto al lavoratore spetta l’indennità sostitutiva delle ferie residue non godute, senza necessità di dover dimostrare di non averne fruito per comprovate esigenze di servizio. Laddove il diritto è escluso, alla stregua della giurisprudenza innanzi citata, solo nel caso in cui il lavoratore non ne abbia fruito per fatto a lui imputabile, ossia quando non abbia aderito ad una specifica richiesta del datore di lavoro di mettersi in ferie.

Per quanto riguarda le ferie maturate nel periodo successivo all’entrata in vigore del d.l. 95/2012, così come convertito dalla legge 135/2012, questo ha previsto al suo articolo 5, comma 8, che “Le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell’art. 1, comma 2, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, nonché delle autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob) sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi. La presente disposizione si applica anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età. Eventuali disposizioni normative e contrattuali più favorevoli cessano di avere applicazione a decorrere dall’entrata in vigore del presente decreto. La violazione della presente disposizione, oltre a comportare il recupero delle somme indebitamente erogate, è fonte di responsabilità disciplinare ed amministrativa per il dirigente responsabile”.

Tale essendo il tenore letterale della norma, va tuttavia sottolineato come certamente la legge non potrebbe tout court negare al dipendente un ristoro economico nel caso in cui, per fatto imputabile esclusivamente al datore di lavoro, non abbia potuto godere delle ferie obbligatorie, in violazione del diritto irrinunciabile alla loro fruizione, tesa a reintegrare le energie psico-fisiche del lavoratore. Ed infatti la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 286/2013 ha espressamente affermato, pur se incidentalmente, che: “Inoltre, anche in base alla normativa sopravvenuta, le ferie del personale dipendente dalle amministrazioni pubbliche, ivi comprese quelle regionali, rimangono obbligatoriamente fruite «secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti», tuttora modellati dalla contrattazione collettiva dei singoli comparti. E la stessa attuale preclusione delle clausole contrattuali di miglior favore circa la “monetizzazione” delle ferie non può prescindere dalla tutela risarcitoria civilistica del danno da mancato godimento incolpevole. Tant’è che nella prassi amministrativa si è imposta un’interpretazione volta ad escludere dalla sfera di applicazione del divieto posto dall’art. 5, comma 8, del d.l. n. 95 del 2012 «i casi di cessazione dal servizio in cui l’impossibilità di fruire le ferie non è imputabile o riconducibile al dipendente» (parere del Dipartimento della funzione pubblica 8 ottobre 2012, n. 40033). Con la conseguenza di ritenere tuttora monetizzabili le ferie in presenza di «eventi estintivi del rapporto non imputabili alla volontà del lavoratore ed alla capacità organizzativa del datore di lavoro» (nota Prot. n. 0094806 del Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato)”. Dunque la Corte, peraltro richiamando il conforme parere espresso dal Dipartimento della Funzione Pubblica nell’ottobre 2012 (successivamente confermato dal parere n. 76251 del 26.11.2020), ha evidenziato come un’interpretazione costituzionalmente orientata della nuova disciplina sul divieto di monetizzazione delle ferie imponga di ritenerla ammissibile, quantomeno al momento della cessazione del rapporto di lavoro, nei casi in cui la mancata fruizione sia dipesa da fatti estranei alla volontà del lavoratore. Analogamente si è espressa la Corte di Giustizia UE nella sentenza del 20.7.16, nella causa C-341/15, in cui, viene espressamente affermato che “…Ne consegue, conformemente all’art. 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88, che un lavoratore, che non sia stato posto in grado di usufruire di tutte le ferie retribuite prima della cessazione del suo rapporto di lavoro, ha diritto a un’indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute. A tal fine è privo di rilevanza il motivo per cui il rapporto di lavoro è cessato”. Ossia la Corte di Giustizia, andando anche oltre quanto affermato dalla Corte Costituzionale, non assoggetta il diritto all’indennità di natura economica ad alcuna condizione diversa dalla intervenuta cessazione del rapporto di lavoro, e dall’oggettivo mancato godimento delle ferie annuali maturate e non godute al momento della cessazione del rapporto. E ciò indipendentemente dalle cause che hanno determinato l’estinzione del rapporto.

La Corte di Giustizia ha successivamente affermato chiaramente che il lavoratore non può perdere il diritto all’indennità per le ferie non godute nel caso in cui non abbia richiesto di fruirne durante il periodo di servizio, laddove egli non sia stato effettivamente posto dal datore nelle condizioni di poter esercitare il proprio diritto alle ferie.

È dunque il datore di lavoro ad essere gravato dall’onere di dimostrare di aver adottato le misure atte a consentire al lavoratore di fruire delle ferie e che il lavoratore vi abbia volontariamente rinunciato: “L’articolo 7 della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale come quella di cui trattasi nel procedimento principale, nei limiti in cui essa implichi che, se il lavoratore non ha chiesto, prima della data di cessazione del rapporto di lavoro, di poter esercitare il proprio diritto alle ferie annuali retribuite, l’interessato perde – automaticamente e senza previa verifica del fatto che egli sia stato effettivamente posto dal datore di lavoro, segnatamente con un’informazione adeguata da parte di quest’ultimo, in condizione di esercitare il proprio diritto alle ferie prima di tale cessazione – i giorni di ferie annuali retribuite cui aveva diritto ai sensi del diritto dell’Unione alla data di tale cessazione e, correlativamente, il proprio diritto a un’indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite non godute” (Grande Sezione della CGUE in data 6 novembre 2018 nella causa C-619/16).

In questo medesimo solco si pone la recente ulteriore pronuncia della Corte di Giustizia del 18 gennaio 2024, che, proprio con riferimento alla normativa italiana (art. 5, comma 8, d.l. 95/2012, così come convertito dalla legge 135/2012), ha ulteriormente precisato quanto segue: “L’articolo 7 della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, e l’articolo 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale che, per ragioni attinenti al contenimento della spesa pubblica e alle esigenze organizzative del datore di lavoro pubblico, prevede il divieto di versare al lavoratore un’indennità finanziaria per i giorni di ferie annuali retribuite maturati sia nell’ultimo anno di impiego sia negli anni precedenti e non goduti alla data della cessazione del rapporto di lavoro, qualora egli ponga fine volontariamente a tale rapporto di lavoro e non abbia dimostrato di non aver goduto delle ferie nel corso di detto rapporto di lavoro per ragioni indipendenti dalla sua volontà” (Corte di Giustizia, 18 gennaio 2024, nella causa C-218/22).

Con siffatta pronuncia la Corte ha dunque ribadito la propria costante giurisprudenza sul carattere fondamentale del diritto incondizionato alle ferie, e sulla possibilità di ottenere un ristoro economico sostitutivo di esse nel solo caso in cui al momento della cessazione del rapporto di lavoro, anche per dimissioni volontarie, queste non siano state godute. Né ragioni organizzative o attinenti al contenimento della spesa pubblica possono giustificare, secondo la Corte, il rifiuto dell’indennità sostitutiva (come invece ritenuto dalla Corte costituzionale italiana, che aveva respinto la questione di costituzionalità della norma di legge in esame). La Corte di Giustizia ricorda infine che il dipendente, per fruire, nelle condizioni date, dell’indennità finanziaria sostitutiva, non ha l’onere di provare di non aver potuto godere delle ferie per fatto a lui non imputabile, ma è il datore di lavoro che deve dimostrare di aver esercitato tutta la diligenza necessaria per fargliele fruire.

Sicchè, alla luce delle pronunce della Corte di Giustizia innanzi riportate, deve concludersi che il datore di lavoro, anche pubblico, per potersi esimere dalla monetizzazione delle ferie, debba dimostrare non solo di aver lasciato al dipendente la facoltà di autodeterminarsi le ferie, ma anche di averlo preventivamente e concretamente informato del periodo di ferie da usufruire, mettendolo effettivamente in condizione di fruirne, mediante le opportune scelte organizzative.

Sulla scorta di siffatta giurisprudenza anche la Suprema Corte ha affermato che il diritto alla monetizzazione viene meno solo nell’ipotesi in cui il datore dimostri di aver offerto un adeguato tempo per il godimento delle ferie, di cui il dipendente, messo nella condizione di farlo, non abbia usufruito, venendo così ad incorrere nella c.d. mora del creditore (Cass. 21 aprile 2020, n. 7976; Cass., n. 21780/2022; Cass., n. 17643/2023; n. 32807/2023).

Ciò posto, l’Azienda resistente, per esimersi dal pagamento al ricorrente dell’indennità sostitutiva delle ferie non godute al momento della risoluzione del rapporto di lavoro, avrebbe dovuto dimostrare di aver messo il dott. yyy effettivamente in grado di fruire delle ferie annuali retribuite, e di averlo invitato, anche formalmente, a farlo, informandolo contestualmente del rischio che, non fruendo tempestivamente delle ferie, avrebbe perduto il relativo diritto anche in termini di compensazione economica.

Tuttavia nessuna prova in tal senso è stata fornita dalla resistente, su cui ricadeva il relativo onere probatorio. Laddove, invece, i turni osservati nel tempo dal ricorrente, come emergenti dalla documentazione prodotta dall’istante, non contestata dall’Azienda, dimostrano come egli sia stato costantemente impiegato per un numero di ore settimanali di gran lunga eccedenti l’orario convenzionale, evidentemente per far fronte ad una endemica carenza di personale, che gli ha presumibilmente reso altresì impossibile godere annualmente delle ferie maturate (docc. da 13 a 25 prod. ricorr.). Né, come innanzi chiarito, corrisponde al vero la circostanza che il yyy avrebbe chiesto ed ottenuto un periodo di aspettativa, che gli avrebbe impedito di fruire interamente delle ferie residue prima della risoluzione del rapporto.

Parimenti, non può affermarsi, come vorrebbe l’Azienda resistente, che la posizione di dirigente di I livello ricoperta dal ricorrente gli avrebbe consentito di pianificare autonomamente le proprie ferie, fruendone regolarmente.

A tal proposito si osserva che invece la Suprema Corte, proprio con riferimento alla posizione di un dirigente medico di I livello, abbia espressamente riconosciuto la spettanza dell’indennità sostitutiva delle ferie non godute, trovandosi il dirigente in questione “in posizione sottordinata a quella dei dirigenti di secondo livello e alla direzione sanitaria responsabile della conduzione della struttura ospedaliera” (Cass. n. 6493/2021; cfr. anche Cass. SS.UU., n. 9146/2009). Ciò in quanto il dirigente medico di I livello non ha alcun potere formale o sostanziale di “programmarsi le ferie e di auto attribuirsene il godimento”, avendo il solo “onere di provare l’avvenuta prestazione di attività lavorativa nei giorni ad esse destinati, atteso che l’espletamento di attività lavorativa in eccedenza rispetto alla normale durata del periodo di effettivo lavoro annuale si pone come fatto costitutivo dell’indennità suddetta, mentre incombe al datore di lavoro l’onere di fornire la prova del relativo pagamento” (in tal senso anche Cass. n. 8521/2015 e Cass. n. 26985/2009).

Peraltro la più recente giurisprudenza di legittimità ha esteso anche ai dirigenti di II livello o di struttura complessa (categoria cui comunque non appartiene il ricorrente) i principi espressi dalla giurisprudenza eurocomunitaria, affermando che la teorica possibilità di autodeterminazione delle ferie di cui godono detti dirigenti sia un elemento insufficiente ad escludere il loro diritto alla monetizzazione delle ferie, laddove l’azienda datrice di lavoro non fornisca prova di avere fatto tutto il possibile per consentire loro l’esercizio in concreto del diritto (cfr. Cass., n. 13613/2020, Cass., n. 18140/2022, n.32830/2023).

Sicchè, alla stregua dei principi innanzi espressi, la richiesta di pagamento dell’indennità sostitutiva delle ferie avanzata dal ricorrente va integralmente accolta.

Circa la quantificazione dell’importo a tale titolo spettante al lavoratore, i conteggi allegati al ricorso risultano correttamente eseguiti, e comunque non sono stati contestati dall’Azienda resistente, che si è limitata a contestare l’an dell’avversa pretesa, ma non il quantum.

Al ricorrente spetta pertanto, per il titolo dedotto in ricorso, la complessiva somma lorda di € 82.907,00, oltre interessi dalle singole maturazioni al saldo.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

 P.Q.M

definitivamente pronunciando, accoglie il ricorso e condanna l’Azienda xxx, in persona del Direttore p.t., al pagamento della somma di € 82.907,00 a favore di  yyy, oltre interessi come per legge;

condanna l’Azienda xxx, in persona del Direttore p.t., al pagamento dei compensi di lite a favore del ricorrente, che liquida in complessivi € 5.360,00, oltre CU in misura di € 379,50, spese generali in misura del 15%, IVA e CPA come per legge”.

 

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