La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con la sentenza n. 5072 del 15 marzo 2016, interviene sul tema del danno risarcibile spettante al lavoratore pubblico ai sensi dell’articolo 36 del Decreto Legislativo 30 marzo 2001, n. 165 in caso di abusivo ricorso al contratto a tempo determinato o di abusiva successione di contratti a tempo determinato.
Su tale tema, negli ultimi anni, si sono registrate anche in sede di legittimità opzioni interpretative difformi, specie nell’individuazione del criterio di liquidazione del danno, che alcune pronunce hanno individuato nella disciplina sanzionatoria della illegittimità dei licenziamenti (cfr. Cassazione 30 dicembre 2014, n. 27481 e 3 luglio 2015, n. 13655 che hanno fatto riferimento all’articolo 8 della Legge 15 luglio 1966, n. 604).
La sentenza in esame, nel ribadire, con articolate motivazioni, l’esclusione della conversione del rapporto da tempo determinato in tempo indeterminato in ambito di pubblico impiego (esclusione sancita dall’articolo 36 Decreto Legislativo n.165/01, che ha già resistito al vaglio di costituzionalità ed è stata ritenuta dalla Corte di giustizia non difforme alla disciplina comunitaria), chiarisce che il danno risarcibile al lavoratore pubblico non è un danno da perdita del posto di lavoro, ma, ordinariamente (ma non esclusivamente), da perdita di chance, determinatosi per il fatto che il dipendente pubblico illegittimamente impiegato a termine rimane confinato in una situazione di precarizzazione, che comporta la perdita di chances di conseguire, con un percorso alternativo, diverse soluzioni di stabile impiego alle dipendenze di altra Pubblica Amministrazione o di un datore di lavoro privato.
Sul tema della prova del danno e sulla sua liquidazione, si registra l’interpretazione adeguatrice o comunitariamente orientata delle Sezioni Unite, volta a dare consistenza ed effettività alle previsioni del nostro ordinamento sul danno risarcibile (articolo 36 citato). In linea con i moniti contenuti nella recente giurisprudenza della Corte di Giustizia (ordinanza 12 dicembre 2013, Papalia, C-50/13 richiamata nella sentenza), le Sezioni Unite evidenziano che soprattutto la difficoltà della prova del danno subito in caso di abusivo ricorso al contratto a termine può ridondare in un “deficit di adeguamento della normativa interna a quella comunitaria e quindi in violazione di quest’ultima”, che potrebbe esporre a censure di costituzionalità la norma interna.
La sentenza in esame, quindi, operando una interpretazione adeguatrice alla disciplina comunitaria della norma interna volta a soddisfare l’esigenza di tutela del lavoratore evidenziata dalla Corte di giustizia, fa riferimento al regime risarcitorio previsto per l’abuso nel ricorso al contratto a termine nel lavoro privato dall’articolo 32 comma 5, Legge 4 novembre 2010, n. 183, che è certamente disciplina normativastrettamente contigua a quella dell’art. 36 D. Lgs. n. 165/2001 e che più si attaglia al fatto che il danno subito dal lavoratore non è da perdita del posto di lavoro, come sopra evidenziato.
Stante l’esigenza di previsione di una disciplina concretamente dissuasiva di abuso nella reiterazione dei contratti a termine che abbia, per il dipendente pubblico, la valenza di una disciplina agevolativa e di favore, le Sezioni Unite hanno statuito che il lavoratore pubblico è esonerato dalla prova del danno nella misura in cui questo è presunto e determinato tra il minimo ed il massimo previsti dall’articolo 32, comma 5 della Legge n. 183/2010. Con l’importante aggiunta che per il lavoratore pubblico l’indennizzo in questione, a differenza di quanto accade per il lavoratore del settore privato in cui esso ha valenza ristoratrice di tutti i danni subiti (in quanto l’indennizzo si accompagna alla conversione a tempo indeterminato del rapporto), non preclude la risarcibilità di un danno (da perdita di chances o di altra natura) in misura più elevata rispetto a quella presunta in base al citato articolo 32 L.183/2010, purché il lavoratore (in tale misura eccedente) operi le relative allegazioni e fornisca la corrispondente prova.
(Corte di Cassazione – Sezioni Unite Civili, Sentenza 15 marzo 2016, n. 5072)
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