Con l’ordinanza n. 6398 del 10 marzo 2025, la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, affronta nuovamente il tema dell’interpretazione delle clausole disciplinari contenute nei contratti collettivi, con particolare riferimento alla nozione di “insubordinazione” e alla sua idoneità a integrare una giusta causa di licenziamento anche al di fuori delle ipotesi esplicitamente previste. Il caso esaminato trae origine dal licenziamento per giusta causa irrogato a un lavoratore del settore dei servizi ambientali, accusato di aver reiteratamente rivolto minacce e ingiurie ai propri superiori, senza tuttavia giungere a compiere atti fisici di aggressione.
La Corte d’Appello, in accoglimento dell’impugnazione del lavoratore, aveva ritenuto il recesso illegittimo, osservando che l’art. 68 del CCNL di settore prevedeva l’insubordinazione quale causa di licenziamento solo se accompagnata da “vie di fatto”, requisito assente nella condotta oggetto di contestazione. La Cassazione, con la pronuncia in esame, ha cassato la sentenza e rinviato la causa al giudice di merito, affermando una serie di principi rilevanti tanto sul piano dell’interpretazione contrattuale quanto su quello dell’applicazione dei criteri di proporzionalità e gravità che presiedono alla valutazione della legittimità del licenziamento.
1. Natura delle previsioni disciplinari collettive: tassatività o esemplarità?
La Corte ribadisce che le previsioni disciplinari contenute nei contratti collettivi hanno, nella generalità dei casi, funzione esemplificativa e non tassativa. Esse non costituiscono un elenco chiuso delle condotte sanzionabili, bensì offrono al giudice un parametro di riferimento per apprezzare la gravità del comportamento in relazione alla tenuta del vincolo fiduciario tra le parti.
Tale orientamento, già affermato in numerose pronunce precedenti (si veda, ex multis, Cass. n. 13955/2019), risponde alla necessità di evitare che l’attività valutativa del giudice venga irragionevolmente compressa da una lettura meramente formalistica della fonte collettiva. Il codice disciplinare, quindi, assume valore orientativo, senza con ciò escludere che altre condotte non previste possano ugualmente integrare una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo, se di pari gravità sostanziale.
2. La nozione di insubordinazione e l’equiparazione funzionale alla “via di fatto”
Uno degli aspetti più rilevanti della pronuncia è l’interpretazione della clausola contrattuale che prevede la “insubordinazione con vie di fatto” quale causa espressa di licenziamento. La Corte afferma che anche l’insubordinazione non accompagnata da violenza fisica può, in presenza di condotte gravi e reiterate – quali minacce e ingiurie – produrre un effetto disgregativo del vincolo fiduciario analogo a quello generato da atti di aggressione.
L’insubordinazione viene dunque considerata nella sua accezione sostanziale, come rifiuto consapevole e volontario di rispettare l’ordine organizzativo dell’impresa, ove si manifesti con modalità tali da rendere oggettivamente impossibile la prosecuzione del rapporto. In tal senso, l’equiparazione tra offesa verbale e condotta fisica non si fonda su un automatismo, bensì sulla valutazione in concreto della portata lesiva del comportamento.
3. Il ruolo del giudice di merito nella valutazione della proporzionalità
La Corte riafferma la centralità del giudizio di proporzionalità tra fatto addebitato e sanzione, da compiersi caso per caso, alla luce delle circostanze concrete, della posizione del lavoratore, della natura del rapporto e dell’intensità della lesione. L’art. 2119 c.c. non richiede una specifica tipizzazione del comportamento per configurare una giusta causa: ciò che rileva è la sua idoneità a minare irrimediabilmente la fiducia tra le parti.
Da ciò discende che il giudice non può limitarsi a verificare la sussistenza dei presupposti contrattuali per la sanzione, ma deve anche accertare se, in concreto, il comportamento contestato abbia inciso in modo tale da rendere il rapporto non più proseguibile, neppure in via provvisoria. Il giudizio deve essere guidato da criteri di ragionevolezza, equità e coerenza sistematica.
4. Considerazioni conclusive
L’ordinanza n. 6398/2025 conferma l’orientamento della giurisprudenza di legittimità che tende a valorizzare la funzione interpretativa, e non vincolante, delle clausole disciplinari collettive. In essa si riafferma il primato del giudizio sostanziale sulla gravità del comportamento rispetto alla rigida applicazione delle previsioni contrattuali.
Si tratta di una posizione che rafforza il ruolo attivo del giudice e attribuisce maggiore responsabilità, sia al datore di lavoro – tenuto a motivare il licenziamento anche oltre le previsioni tipizzate – sia al lavoratore – chiamato a osservare un dovere generale di correttezza e rispetto nei confronti dell’organizzazione aziendale, anche al di là di quanto formalmente previsto dal codice disciplinare.
La decisione si pone quindi in linea con un approccio sostanzialistico e sistemico al diritto del lavoro, volto a garantire l’equilibrio tra tutela della parte debole e necessità organizzative dell’impresa, nel rispetto del principio generale di buona fede e della funzione sociale del contratto.
Avv. Leonardo Chilosi
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