Nota a Tribunale di Roma, Sez. Lav., sentenza 29 gennaio 2019 – Est. Cacace
Sommario:
1. Il caso deciso dal Tribunale di Roma
2. La fattispecie di cui all’art. 2103, co. 2, c.c.: presupposti per l’unilaterale modifica in peius delle mansioni da parte datoriale
3. La forma scritta, a pena di nullità, in caso di mobilità verticale
4. Osservazioni conclusive.
Il caso deciso dal Tribunale di Roma
Con la sentenza sopra riportata, il Tribunale di Roma ha accolto le rivendicazioni promosse da un lavoratore, che aveva impugnato il trasferimento disposto nei suoi confronti nel gennaio 2016 ed aveva contestato l’illegittima modifica mansionistica subita immediatamente presso la sede di nuova assegnazione.
La decisione è stata assunta senza darsi corso ad istruzione probatoria, avendo il Giudice ritenuto inidonee le prove articolate dalla società datrice di lavoro (onerata sia della prova delle comprovate ragioni di trasferimento, sia dell’adempimento dell’obbligo di corretta adibizione mansionistica) ed avendo considerato decisiva la mancata contestazione di alcune rilevanti deduzioni operate dal lavoratore ricorrente.
A base del decisum si rinviene nella motivazione un’attenta ricognizione degli orientamenti giurisprudenziali in materia di trasferimento e demansionamento, di cui risulta certamente condivisibile l’applicazione nel caso concreto.
Con riferimento al trasferimento, il Giudice ha ritenuto la prova articolata dalla società datrice di lavoro inidonea ed insufficiente a confermare, per un verso, la dedotta esigenza d’integrazione dell’organico presso la nuova sede di assegnazione del lavoratore e, per altro verso, l’esistenza di una situazione di esubero presso la sede di provenienza del medesimo.
Il Giudice ha rilevato, inoltre, che l’azienda datrice di lavoro non ha provato di avere informato, prima della comunicazione del trasferimento, le rappresentanze sindacali aziendali sulle motivazioni di esso, nonostante il C.C.N.L. applicato al rapporto (per i dipendenti da Aziende editrici e stampatrici di giornali quotidiani ed agenzie di stampa) preveda l’obbligo di informativa ai fini dell’esame congiunto.
Sulla base di tali presupposti, assorbita la disamina di ogni ulteriore questione, il Tribunale di Roma ha dichiarato la nullità del trasferimento, ordinando alla società convenuta di riassegnare il dipendente alla sede di precedente adibizione.
Il Tribunale ha ritenuto, altresì, il configurarsi di un illegittimo demansionamento del ricorrente, in violazione dell’art. 2103 c.c., rilevando, in particolare, che l’adibizione a mansioni inferiori non possa trovare legittimazione nemmeno ai sensi del comma 2 della detta disposizione, riformata dal Jobs Act, che prevede spazi di adibizione unilaterale in peius precedentemente non normati.
Il Tribunale ha ritenuto inutile un approfondimento istruttorio anche in ordine al tema mansionistico, per un verso, rilevando che la società datrice di lavoro, sebbene ne fosse onerata ex art. 2697 c.c.[1], non ha fornito prova dell’equivalenza ex art. 2103, co. 1, c.c. delle mansioni espletate dal lavoratore dopo il trasferimento rispetto a quelle assolte in precedenza ed anzi abbia ammesso, nella memoria difensiva, il demansionamento, sostenendone la legittimità ai sensi dell’art. 2103, co. 2, c.c.; per altro verso, in quanto la società convenuta non ha specificamente contestato (con le conseguenze processuali derivanti dall’art. 115 c.p.c.) le deduzioni del ricorrente e, in particolare, che questi, a seguito del mutamento di sede di lavoro, fosse stato immediatamente adibito allo svolgimento di mansioni esecutive di “addetto alle spedizioni”, di gran lunga inferiori rispetto a quelle di “infografico e impaginatore” precedentemente espletate e riconducibili al livello 8° riconosciutogli.
Il Giudice ha ritenuto la riconducibilità delle nuove ed incontestate mansioni del lavoratore al 3° livello del contratto collettivo di settore, giacché “caratterizzate da una procedura standardizzata e meccanizzata che prevedono anche la movimentazione manuale di carichi” e, pertanto, ha ravvisato la totale illegittimità della variazione mansionistica disposta in suo danno.
Preme evidenziare che la modifica mansionistica contestata dal lavoratore ricade nell’area di applicazione dell’art. 2103 c.c., come modificato dall’art. 3 del D.Lgs. n. 81/2015, in quanto sia il momento genetico della dequalificazione, sia il periodo di effettiva adibizione mansionistica peggiorativa si collocano entrambe nella vigenza della nuova formulazione normativa[2].
In relazione al nuovo tenore della disposizione dell’art. 2103 c.c. il Giudice ha verificato se la società resistente abbia esercitato validamente lo ius variandi nei termini previsti dall’art. 2103 c.c. vigente.
La sentenza in commento identifica, innanzitutto, un profilo di criticità della posizione datoriale nel fatto che la comunicazione di trasferimento del dipendente presso la nuova sede di adibizione, sebbene effettuata per iscritto, non contenga alcuna indicazione relativa al cambio di mansioni che ne sarebbe seguito, né specifichi che le nuove mansioni sarebbero state inferiori alle precedenti. Il Giudice ha rilevato quindi la mancata osservanza del requisito formale richiesto a pena di nullità dall’art. 2103, co. 5, c.c.
In termini ancor più decisivi, il Tribunale ha riscontrato che le mansioni assolte dal lavoratore presso la nuova sede di destinazione siano riconducibili al 3 livello del contratto collettivo applicato, quindi cinque livelli in meno rispetto a quello di inquadramento riconosciuto al lavoratore, dovendosi del tutto escludere un legittimo esercizio dello ius variandi da parte della società convenuta, per chiaro contrasto con le previsioni dell’art. 2103, co. 2, c.c. Quand’anche nella comunicazione di trasferimento fosse stata rinvenibile un’implicita comunicazione di modifica peggiorativa delle mansioni, in nessun caso l’azienda avrebbe potuto unilateralmente esercitare lo ius variandi in termini così accentuatamente peggiorativi, se non nella diversa ipotesi di cui all’art. 2103, co. 6, c.c., che presuppone il consenso del lavoratore, da esprimersi in sede protetta[3] e al ricorrere di uno dei presupposti previsti da tale norma.
Dichiarata l’illegittimità della dequalificazione subita dal ricorrente, il Tribunale ha condannato la società convenuta a ricollocarlo nella sede presso cui lo stesso era adibito in precedenza, nonché a reintegrarlo nelle mansioni di 8° livello precedentemente espletate, condannando la società resistente al risarcimento del danno professionale e morale dallo stesso subito.
La fattispecie di cui all’art. 2103, co. 2, c.c.: presupposti per l’unilaterale modifica in peius delle mansioni da parte datoriale
L’art. 2103, co. 1, c.c., come modificato dal Jobs Act, ha riscritto i termini dell’equivalenza mansionistica, con l’abbandono del riferimento alla tutela della professionalità specifica, acquisita dal lavoratore e da valutarsi in concreto, e con la previsione di un limite allo ius variandi orizzontale da rinvenirsi nel rispetto del criterio dell’equivalenza, come “classificata” dalla contrattazione collettiva. Disposizione che impone all’interprete di operare la verifica circa la riconducibilità delle nuove mansioni assegnate nella declaratoria astratta del livello contrattuale di inquadramento[4].
La sentenza in commento fornisce spunto per concentrare l’attenzione sul potere datoriale di variazione unilaterale in peius delle mansioni del dipendente, previsto dall’art. 2103, co. 2 c.c., che costituisce ulteriore novità della vigente formulazione normativa.
Il Giudice, nel verificare la legittimità della condotta aziendale ha valutato se il demansionamento, peraltro ammesso dalla società convenuta nella propria memoria difensiva, sia legittimo ai sensi della previsione dell’art. 2103, co. 2, c.c.
L’espressa previsione di uno ius variandi in peius, non necessitante del consenso del lavoratore, costituisce certamente un’importante evoluzione normativa rispetto al testo previgente dell’art. 2103 c.c., che era caratterizzato dal divieto di adibizione del lavoratore a mansioni inferiori, seppur accompagnato da alcune eccezioni introdotte nel tempo dal legislatore[5] e dalla giurisprudenza, non sempre univoca, che aveva legittimato in talune ipotesi il c.d. patto di demansionamento in deroga al divieto dei patti contrari di cui al previgente comma 2[6].
Il novellato art. 2103 co. 2, c.c. abilita il datore di lavoro, in caso di “modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore”, ad assegnargli mansioni riconducibili al livello di inquadramento inferiore rispetto a quello riconosciuto, purché rientranti nella medesima categoria legale (dirigente, quadro, impiegato, operaio).
È stato osservato che tale norma prevede un limite “interno” e due limiti “esterni” all’esercizio dello ius variandi[7]. Il limite interno è costituito dalla causa giustificatrice del mutamento in peius di mansioni del lavoratore ed impone, evidentemente, la sussistenza (e dimostrazione in caso di contestazione) di un nesso di causalità tra la modifica degli assetti aziendali e la variazione mansionistica disposta nei confronti del dipendente.
I limiti “esterni” sono costituiti dall’obbligo di rispetto della categoria legale di appartenenza e dal divieto di adibire il dipendente a mansioni inferiori di più di un livello rispetto a quello di inquadramento riconosciuto allo stesso.
Il comma 5 dell’art. 2103 c.c. prevede, inoltre, che la modifica mansionistica in peius di cui ai commi 2 e 4, c.c., debba essere effettuata per iscritto, a pena di nullità.
L’interpretazione della disposizione del comma 2, in particolare del significato da attribuire all’espressione “modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore”, ha dato adito ad interpretazioni differenziate.
Le diatribe interpretative che la norma ha suscitato, con dubbi, non sopiti, sul possibile eccesso di delega[8], sono sorte, pressoché immediatamente, in ragione della formula utilizzata dall’art. 3 del D. Lgs. n. 81/2015, indubbiamente più generica ed indeterminata di quella (più restrittiva) impiegata dalla Legge delega 10 dicembre 2014, n. 183[9].
Secondo una prima lettura, sarebbe possibile adibire unilateralmente il dipendente a mansioni inferiori nei termini previsti dal comma 2, solo in quanto la modifica degli assetti organizzativi aziendali impatti sulla posizione del dipendente nel senso di mettere a rischio la sua permanenza in azienda[10], cosicché l’adibizione mansionistica in peius altro non sarebbe se non la misura datoriale idonea a conservare al dipendente il posto di lavoro.
L’art. 2103, co. 2, c.c. viene ricollegato al tema del licenziamento per g.m.o. e dei limiti dell’obbligo di repechage, che secondo molti osservatori trova proprio nel citato comma 2 la sua emersione normativa. Il demansionamento, in questa linea interpretativa, presuppone la sussistenza di una sorta di “giustificato motivo oggettivo”, per ragioni del datore (ossia la modifica organizzativa a livello aziendale), di deroga alla nullità dei patti contrari, confermata dall’art. 2103, co. 9, c.c.[11].
Secondo altra lettura sarebbe consentita, al contrario, l’assegnazione di mansioni inferiori nel caso di una qualsiasi modifica degli assetti organizzativi aziendali, purché effettiva, incidente sulla posizione del lavoratore e della quale sia data prova giudizialmente, da parte del datore di lavoro, in caso di contestazione[12].
Si segnala come soluzione interpretativa di sostanziale “compromesso” tra le posizioni di cui sopra la possibile lettura costituzionalmente orientata della norma del comma 2, tendente di fatto a recuperare i criteri direttivi che erano stabiliti nell’art. 7, lett. e) della Legge n. 183/2014. In base a tale proposta esegetica dovrebbe concludersi che l’assegnazione a mansioni inferiori, ai sensi del comma 2 dell’art. 2103, sia da intendersi possibile non per un qualsiasi mutamento dell’assetto organizzativo, ma, ferma la sussistenza del nesso causale, per quella modifica organizzativa che metta a concreto rischio il posto di lavoro, la professionalità o talune condizioni individuali del dipendente[13].
Un’interpretazione non troppo espansiva del potere datoriale di variazione in peius sembra preferibile – in una lettura delle nuove norme che bilanci le esigenze dell’impresa con il diritto del dipendente alla tutela di valori costituzionalmente tutelati – anche tenuto conto che la mobilità orizzontale, come oggi ridisegnata nel comma 1, ha aperto per il datore di lavoro possibilità di variazione mansionistica impensabili nella vigenza della precedente formulazione dell’art. 2103 c.c.
Ciò rapidamente considerato, occorre tenere conto che la sentenza in commento, nel valutare il demansionamento disposto dalla società convenuta, ha analizzato il contenuto della lettera di trasferimento, nella quale non era effettuato alcun riferimento al cambio di mansioni che sarebbe derivato dal mutamento di sede (già sotto questo profilo, non essendo la comunicazione coerente con la previsione del comma 5), né erano esplicitate ragioni riconducibili alla previsione normativa dell’art. 2103, co. 2, c.c..
La comunicazione di trasferimento si preoccupava solo di dare conto degli effetti della riorganizzazione aziendale presso lo stabilimento di stampa cui il ricorrente veniva destinato, senza minimamente alludere a se e come la dedotta riorganizzazione avesse impattato sulla posizione del dipendente presso la sede di precedente adibizione, ove assolveva a mansioni di “infografico e impaginatore” (assolutamente coerenti con il livello di inquadramento riconosciuto).
Solo nella memoria difensiva, l’azienda convenuta, cercando di colmare giudizialmente le carenze della comunicazione, ha dedotto che, al momento del trasferimento, la prestazione del dipendente fosse divenuta superflua per il ridimensionamento dell’attività infografica presso la sede di provenienza dell’interessato.
Il Giudice ha ritenuto tali deduzioni generiche e smentite dal fatto che la stessa resistente avesse ammesso il perdurare dell’espletamento di attività infografiche presso la sede di provenienza del ricorrente, tanto da avervi adibito un paio di operatori in più di quelli già in precedenza assegnati a tale attività, proprio all’esito del trasferimento contestato.
In una verifica limitata all’effettività (e non al merito) delle ragioni addotte dall’azienda, il Giudice ha correttamente ravvisato l’insussistenza di esse, seppur espresse dall’azienda a supporto del trasferimento adottato nei confronti del dipendente e poi dichiarato nullo.
Come detto, il provvedimento in commento ha ritenuto decisivo ad escludere la legittimità del demansionamento il fatto che l’azienda avesse certamente ecceduto uno dei due limiti c.d. esterni previsti dall’art. 2103, co. 2, c.c., ossia quello che legittima all’adibizione del dipendente a mansioni del livello di inquadramento immediatamente inferiore rispetto a quello riconosciutogli.
Data la sussumibilità delle mansioni al 3° livello del CCNL dei Poligrafici, la sentenza ha correttamente rilevato come il demansionamento in nessun caso avrebbe potuto considerarsi legittimo, non potendo l’azienda – pur nella ipotesi della sussistenza della causa giustificatrice del demansionamento – incidere unilateralmente sulla posizione del dipendente al punto da assegnargli mansioni tanto penalizzanti sul piano professionale.
Una siffatta modifica giammai avrebbe potuto resistere al vaglio di validità giudiziale, potendo semmai una così penalizzante variazione in peius delle mansioni essere adottata unicamente con ricorso all’ipotesi dell’accordo previsto dall’art. 2103, co. 6, c.c., da formalizzarsi in sede protetta e al sussistere di uno dei presupposti giustificativi espressamente previsti da tale norma.
La forma scritta, a pena di nullità, in caso di mobilità verticale
La disamina della sentenza in commento offre lo spunto per qualche rapida considerazione anche con riferimento alla previsione del comma 5, che prescrive l’obbligo della forma scritta nel caso in cui l’azienda intenda disporre una variazione mansionistica in peius, ai sensi dei commi 2 e 4 dell’art. 2103 c.c. Analogo obbligo, comprensibilmente, non è previsto in caso di modifica delle mansioni nel rispetto dell’equivalenza di cui all’art. 2103, co. 1, c.c.
La mancanza della comunicazione in forma scritta, in caso di adibizione unilaterale a mansioni inferiori ai sensi del comma 2, determinando la nullità del provvedimento di variazione mansionistica, legittima per ciò solo la richiesta del dipendente di riassegnazione alle mansioni precedentemente assolte, oltre ad eventuali statuizioni di condanna per i danni eventualmente subiti.
Nella fattispecie sottoposta all’esame del Giudice, come detto, l’azienda ha consegnato comunicazione scritta al dipendente, avente ad oggetto l’avvenuta adozione del trasferimento[14], ma non quella di adibirlo a mansioni inferiori presso il reparto spedizioni. Il cambio di mansioni, nello specifico, era solo presumibile, non essendo in alcun modo chiaro nella lettera di trasferimento a quali diverse mansioni il lavoratore sarebbe stato adibito e se esse sarebbero state inferiori alle precedenti ed in quali termini.
Il Giudice, a fronte del tenore della lettera di trasferimento, ha rilevato che l’azienda non avesse osservato l’obbligo di forma prescritto dal comma 5, prendendo atto, ancor prima di una disamina sul rispetto dei presupposti di cui all’art. 2103, co. 2, c.c., del delinearsi di tale rilevante vizio di forma.
Ci si è interrogati se la formulazione del comma 5 – laddove prevede che “il mutamento di mansioni è comunicato per iscritto, a pena di nullità” – imponga o meno al datore di lavoro anche di specificare le ragioni per cui il mutamento di mansioni in peius sia stato adottato.
L’interpretazione prevalente appare essere nel senso che la norma oneri il datore di lavoro di dare al lavoratore comunicazione espressa solo della modifica mansionistica disposta, in modo da fornire collocazione temporale certa ad essa [15], ma non delle ragioni a base di essa.
Non manca un orientamento interpretativo più rigido, che ritiene che l’obbligo di comunicazione di cui al comma 5 debba estendersi anche alle motivazioni ed esplicazione dei presupposti che abbiano indotto l’azienda ad adottare la modifica in peius, anche al fine di consentire un successivo eventuale controllo giudiziale[16].
Quale che sia la soluzione interpretativa che prevarrà a livello giurisprudenziale, sembra certamente auspicabile e coerente a buona fede che il datore di lavoro, che intenda avvalersi della facoltà (la norma utilizza il verbo “può”) di cui al comma 2, comunichi al dipendente, anche sinteticamente, le ragioni del mutamento mansionistico in peius, se non altro per le implicazioni di tipo professionale che ne possono derivare e per l’esigenza di un percorso formativo, specie in caso di adibizione a mansioni che, sebbene inferiori, implichino diverse competenze professionali rispetto a quelle fino a quel momento acquisite.
È pur vero che, a maggior ragione in quanto la contestazione del demansionamento non è soggetta ai termini decadenziali di impugnativa della Legge n. 183/2010, il dipendente, ricevuta un’asettica ed immotivata comunicazione di mutamento di mansioni in termini peggiorativi non accompagnata dalla esplicazione delle ragioni, potrà sempre esprimere le proprie doglianze in termini stragiudiziali, sollecitando il datore di lavoro a precisare le ragioni aziendali a base della modifica. Il mancato riscontro ad una tale richiesta sarebbe certamente valutabile con sospetto, specie in caso di contestazione giudiziale, anche per lo scostamento di una tale condotta dai canoni di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.
Si ritiene, in ogni caso, che l’obbligo di comunicazione, a pena di nullità, anche del solo cambio di mansioni sia previsione normativa certamente positiva, in quanto consente al dipendente interessato, chiamato ad eseguire, da un certo momento in poi, mansioni dequalificanti, di verificare da subito (nel caso in cui l’azienda non espliciti i presupposti a suo dire giustificativi della modifica in peius) quanto meno il rispetto aziendale dei limiti c.d. esterni sopra citati, relativi all’osservanza del livello di inquadramento (mansioni del livello immediatamente inferiore) e della categoria legale di appartenenza.
Senza dimenticare che la verifica del lavoratore sulla correttezza del comportamento aziendale potrebbe attenere anche all’osservanza dell’obbligo di formazione (comma 3), in tutti i casi in cui le nuove mansioni, per quanto inferiori, comportino l’esigenza di conoscenze ed esperienze professionali estranee al percorso professionale del lavoratore demansionato. Nel caso in cui la formazione, ove necessaria, non sia assicurata, dalla violazione dell’obbligo (per quanto non sanzionato) potranno insorgere possibili conseguenze risarcitorie a beneficio del dipendente, che peraltro non potrà vedersi imputate negligenze sull’esecuzione di una attività sulla quale non è stato formato[17].
Osservazioni conclusive
Le modifiche della norma di cui all’art. 2103 c.c., relativamente recenti, non hanno ancora dato adito, a quanto consta, al formarsi di una significativa casistica giurisprudenziale, relativa in specie al comma 2. Rimane, quindi, aperta, tra gli altri punti di incertezza, relativi peraltro alle diverse norme inserite nel testo novellato dell’art. 2103 c.c., innanzitutto la questione della portata del controllo giudiziario sulla legittimità delle modifiche mansionistiche, poiché se è vero che il giudice non può sindacare il merito delle scelte aziendali, rimane da verificare in che modo, nell’analisi delle concrete fattispecie dedotte giudizialmente, la valutazione delle vicende di unilaterale ius variandi mansionistico sarà condizionata dal fatto che la contrattazione collettiva, per lo più, non si sia ancora adeguata al ruolo che la nuova disciplina in tema di mobilità le ha riconosciuto[18].
Alla luce del sintetico quadro sopra effettuato, non può sfuggire come l’interpretazione, in particolare, del comma 2 dell’art. 2103 c.c. si presenti incerta e insidiosa per il datore di lavoro.
Non sembra azzardato ipotizzare che i limiti, interni ed esterni, all’esercizio unilaterale dello ius variandi, uniti all’obbligo di osservanza della forma scritta a pena di nullità (comma 5) ed al diritto del dipendente al mantenimento del trattamento stipendiale goduto (superiore, in termini di stretta corrispettività, alle prestazioni lavorative di contenuto inferiore effettivamente rese), non incentivino il ricorso a tale ipotesi (specie se confermata come facoltativa alla luce del tenore testuale della norma) di demansionamento unilaterale.
Ciò in particolare considerato che, secondo parte della dottrina, l’adibizione unilaterale, ex art. 2103, co. 2 c.c., del dipendente a mansioni di livello immediatamente inferiore a quello di inquadramento dovrebbe considerarsi di carattere temporaneo[19]. Secondo tale lettura si configura il diritto del lavoratore ad una ricollocazione mansionistica coerente rispetto all’inquadramento contrattuale riconosciuto, non appena se ne pongano i presupposti in azienda o si rendano vacanti posizioni del livello di spettanza (si tratterebbe di una sorta di diritto di precedenza alla riassegnazione mansionistica equivalente al livello di inquadramento riconosciuto)[20]. Posizione che, ove trovasse conferma a livello giurisprudenziale, concreterebbe per il datore di lavoro non solo il rischio di contestazione, non soggetta a termini decadenziali, circa la ricorrenza dei presupposti di demansionamento unilaterale di cui all’art. 2103, co. 2 c.c., ma lo esporrebbe, altresì, a possibili pretese successive, da parte del dipendente, volte anche a vedersi riassegnare (in considerazione di mutate condizioni aziendali nel frattempo sopravvenute) mansioni coerenti al proprio livello di inquadramento. Si può prevedere, pertanto, che le aziende, ove possibile, prediligeranno di gran lunga la soluzione di demansionamento prevista dal comma 6, che reca certamente il vantaggio, particolarmente apprezzato dal lato datoriale, di acquisire come certo e potenzialmente definitivo il ricollocamento mansionistico in peius del lavoratore, proprio in quanto frutto di manifestazione di consenso, espresso in sede protetta[21]. Con l’elemento aggiuntivo costituito dalla possibilità di negoziare, in presenza dei presupposti tipici previsti dal comma 6 (la sussistenza dell’“interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita”), non solo una (stabile) adibizione del dipendente a mansioni di livelli più bassi rispetto al livello immediatamente inferiore a quello goduto, ma anche una modifica del livello di inquadramento ed una riduzione del trattamento stipendiale, certamente esclusa nella ipotesi del comma 2 (il comma 5, infatti, esclude il diritto del dipendente alla percezione delle sole voci di retribuzione ancorate a specifiche modalità della prestazione lavorativa non più riscontrabili nelle mansioni di nuova assegnazione).
È indubbio che la soluzione negoziata di demansionamento, che peraltro è ammessa a fronte di un “interesse del lavoratore” che, il più delle volte, sorge proprio in presenza e/o causa di modifiche degli assetti aziendali che incidono sulla sua posizione, metta al riparo l’azienda dalla gran parte dei rischi sopra considerati, non esponendola ai gravosi oneri di prova relativi alla sussistenza dei presupposti del comma 2.
In questa prospettiva, il comma 2 dell’art. 2103 c.c. sembra destinato, almeno nella prima fase temporale della sua vigenza, ad assumere predominante rilievo giurisprudenziale piuttosto che nella valutazione della legittimità di provvedimenti aziendali di unilaterale variazione mansionistica in peius, espressamente adottati in dichiarata applicazione di tale norma, nel diverso ambito del sindacato sulla legittimità di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo. Può, infatti, considerarsi scontato che le impugnative dei licenziamenti economici intimati dal datore di lavoro, senza verificare preventivamente la possibilità di adibizione del dipendente licenziato in mansioni del livello inferiore, ai sensi anche dell’art. 2103, co. 2, c.c., daranno adito ad ampio richiamo nelle aule di giustizia a tale norma (ed a quella del comma 6), quale elemento di censura della legittimità dell’iniziativa solutoria nell’ambito della problematica del repechage, solo accennata nella presente sede[22].
È, altresì, probabile che la norma del comma 2 (e del connesso comma 5) sarà invocata al fine di censurare quelle modifiche mansionistiche che l’azienda pretenda di ricondurre alla previsione del comma 1 dell’art. 2103 c.c., ma che invero si rivelino dequalificanti, alla luce delle declaratorie del contratto collettivo (non sempre di agevole decodificazione). In tal caso, la semplice assenza della comunicazione in forma scritta (comma 5) decreterebbe la nullità del provvedimento di variazione mansionistica, precludendo la possibilità per l’azienda di dimostrare i presupposti previsti dal comma 2
Note
[1] La giurisprudenza di legittimità risulta consolidata nell’addossare al datore di lavoro, quale soggetto tenuto all’adempimento dell’obbligazione, la prova della corretta adibizione del dipendente a mansioni coerenti a quelle di assunzione o di successiva assegnazione, in linea con le previsioni dell’art. 2103 c.c. In questo senso, si segnala, tra le più recenti, Cass., Sez. Lav., 19 ottobre 2018, n. 26477, che ha confermato ulteriormente l’orientamento espresso da Cass., Sez. Lav., 6 marzo 2006, n. 4766, in Mass. giur. lav., 2006, 10, 777 e, tra le altre, da Cass., Sez. Lav., 3 marzo 2016, n. 4211 in Mass. giur. lav., 2016, 8/9, 634, da Cass., Sez. Lav., 13 aprile 2016, n.7300, in Guida al lav, 2016, 20, 49, da Cass., Sez. Lav., 18 gennaio 2018, n. 1169; Cass., Sez. Lav., 3 aprile 2018, n.8152.
[2] Come è noto, si è posto un problema di diritto transitorio per quelle vicende dequalificatorie insorte prima del 25 giugno 2015 (data di entrata dell’art. 3, D.Lgs. n. 81/2015) e proseguite successivamente, essendosi affermati da subito due orientamenti contrapposti in giurisprudenza, in ordine alla disciplina applicabile: un primo orientamento, espresso dalla sentenza del Tribunale di Roma, est. Sordi, pubblicata in Riv. it. dir. lav. 2015, II, 1044, con nota di V. Nuzzo, Il nuovo art. 2103 c.c. e la (non più necessaria) equivalenza delle mansioni, e in Il Foro it., 2016, I, 362, qualificando il demansionamento come “illecito permanente”, conclude nel senso che l’adibizione mansionistica perdurante oltre la data del 25 giugno 2015 sia da valutare, per il periodo successivo a tale data, a stregua della norma novellata dal Jobs Act; un secondo orientamento, espresso dal Tribunale di Ravenna, est. Riverso, sentenza 30 settembre 2015, n. 174, pubblicata in Arg. dir. lav., 2016, II, 109 ed in Riv. giur. lav., 2016, II, 405-421 con nota di E. M. Terenzio, ritiene che, al fine dell’individuazione della normativa applicabile, debba aversi riguardo alla norma vigente al momento del provvedimento di variazione mansionistica, da cui scaturisce il diritto del lavoratore. Cfr. sulle problematiche di diritto transitorio M. L. Buconi, La mobilità verticale nel nuovo testo dell’art. 2103 c.c., in Labor, Il Lavoro nel diritto, 2018, 1, 46, che ritiene preferibile la prima tesi, dando atto dei diversi orientamenti dottrinari esistenti.
[3] Cfr. al riguardo M. Falsone, Ius variandi e ruolo della contrattazione collettiva, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.it – 308/2016, 4, laddove l’Autore evidenzia che la modifica mansionistica prevista dall’art. 2103, co. 6, c.c., fondandosi su un patto di demansionamento, da sottoscriversi in sede protetta, esula dal tema dello ius variandi unilaterale in capo al datore di lavoro, accedendo al diverso ambito della novazione oggettiva del rapporto di lavoro.
[4] Cfr. per un ampio quadro della nuova formulazione dell’art. 2103 c.c., tra gli altri, M. Brollo, Disciplina delle mansioni (art. 3), in F. Carinci (a cura di), Commento al D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, Adapt University Press, Adapt Labour Studies e-book series, n. 48, 29 e ss.; F. Liso, Brevi osservazioni sulla revisione della disciplina delle mansioni contenuta nel Decreto legislativo n. 81/2015 e su alcune recenti tendenze di politica legislativa in materia di rapporto di lavoro, in WP C.S.D.LE. “Massimo D’Antona”.it, 257/2015, 7 e ss.
[5] Nel nostro ordinamento sono state inserite diverse norme, di carattere speciale, volte a tutelare la salute a scapito della tutela del bene professionalità o a tutelare il diritto alla conservazione del posto di lavoro: nel primo senso, cfr. l’art. 7 D.Lgs. n. 151/2001, per lavoratrice madre e il nascituro; l’art. 4, co. 4 L. n. 68/1999 per il lavoratore divenuto invalido a seguito d’infortunio o di malattia; l’art. 10, co. 3 L. n. 68/1999 per il lavoratore disabile che abbia subito un aggravamento delle proprie condizioni di salute incompatibile con le mansioni a lui affidate; l’art. 42 D.Lgs. n. 81/2008 per il lavoratore dichiarato inidoneo alla mansione specifica; nel secondo senso, cfr. l’art. 4, co. 11, L. n. 223/1991. M. Brollo, op. cit., 65, sottolinea che le “ipotesi legali di demansionamento in casi speciali sopravvivano alla novella, sia in quanto il D.Lgs. n. 81/2015 non le richiama espressamente nell’ambito delle norme che prevedono un elenco puntuale di abrogazioni (nell’art. 55 e nel comma 2 dell’art. 3), sia in quanto esse non risultano incompatibili con la disciplina introdotta dal nuovo art. 2103 c.c.”.
[6] Si rimanda per una panoramica della evoluzione della giurisprudenza e sulla introduzione dei “giustificati motivi di deroga” alla regola della nullità dei patti contrari M. Brollo, op. cit., 47 e ss. quale adesione alla tesi del c.d. “male minore”. Si segnalano in giurisprudenza, espressione di una tale linea interpretativa, tra le altre Cass. 1° luglio 2014, n. 14944; Cass. 22 maggio 2014, n. 11395; Cass. 8 agosto 2011, n. 17095; Cass. 26 settembre 2007, n. 20164; Cass. 1°marzo 2001, n. 2948.
[7] Cfr. in tema C. Pisani, La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, Torino, 2015, 70.
[8] Conclude per la sussistenza dell’eccesso di delega, tra gli altri, D. De Feo, La nuova nozione di equivalenza professionale, in Arg. dir. lav., 2015, 4/5, 869-870, secondo il quale la revisione della disciplina delle mansioni restava subordinata, nella prospettiva del legislatore delegante, all’esistenza di un processo di rinnovazione/trasformazione (totale o parziale) dell’impresa, quindi a situazioni aziendali di valenza collettiva che presuppongono uno stato di crisi aziendale e un’eccedenza di personale. Nello stesso senso F. Liso, op. cit., 6 e L. De Angelis, Note sulla disciplina delle mansioni ed i suoi (difficilissimi) rapporti con la delega, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.it, 263/2015, 4 e ss.. F. Amendola, La disciplina delle mansioni nel D.Lgs. n. 81 del 2015, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.it, 291/2016, 6 e ss., manifesta analoghe perplessità, ritenendo tuttavia che i profili di eccesso di delega siano superabili tenendo conto che la formula utilizzata alla norma del comma 2 dell’art. 2103 sembra riecheggiare quella impiegata nella legge delega (“processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale). Esclude l’eccesso di delega C. Pisani, I nostalgici dell’equivalenza delle mansioni, in WP C.S.D.L.E.- “Massimo D’Antona”.it, 310/2016, 7 e ss.
[9] L’art. 7, lettera e) della Legge delega prevedeva quali principi e criteri direttivi la “revisione della disciplina delle mansioni, in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale individuati sulla base di parametri oggettivi, contemperando l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita ed economiche, prevedendo limiti alla modifica dell’inquadramento”.
[10] Si iscrive in questa linea interpretativa D. Mimmo, La riscrittura di uno dei capisaldi del diritto del lavoro, in Speciale Sole24ore, luglio 2015, 20, secondo il quale la modifica richiesta dal comma 2 sia da identificarsi sostanzialmente nella impossibilità di proseguire nell’adibizione del lavoratore nelle mansioni fino a tale momento svolte, come, ad esempio, in caso di soppressione della posizione del dipendente coinvolto.
[11] M. Brollo, op. cit., 67.
[12] Si rimanda alla disamina di S. Canali de Rossi, Mansioni. Ius variandi datoriale e demansionamento, in Dir. prat. lav., 2015, 1345. Nello stesso senso anche R. Voza, Autonomia privata e norma inderogabile nella nuova disciplina del mutamento di mansioni, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.it, 262/2015, 7, che riprende tale posizione, considerando significativo il fatto che il Governo abbia ignorato gli inviti effettuati dalla Commissione Lavoro della Camera dei Deputati, volti a ricomporre la frattura tra la delega e il provvedimento delegato, e non abbia reinserito le parole “per effetto di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale”, in tal modo ritenendo che il testo vigente della norma del 2013 “non esiga affatto che il demansionamento del lavoratore si presenti come alternativa ad un licenziamento e neppure ad una comprovata crisi aziendale”. L’Autore semmai sottolinea l’importanza del controllo giudiziale, in caso di contestazione dei presupposti di cui all’art. 2103, co. 2, c.c.
[13] Cfr. F. Amendola, op. cit., 7.
[14] Per il trasferimento, fermo rimanendo l’onere di prova delle ragioni oggettive giustificative di esso direttamente in giudizio in caso d’impugnativa da parte del lavoratore, la giurisprudenza (cfr. Cass., Sez. Lav., nn. 43/2007 e 6041/2012) ha più volte ribadito il principio della libertà di forma. Aspetto che manifesta, peraltro, dei profili di problematicità, tenuto conto che l’impugnativa del trasferimento è soggetta ai termini decadenziali dell’art. 32 della Legge n. 183/2010.
[15] Cfr. al riguardo F. Amendola, op. cit., 21, che evidenzia come, al pari delle comunicazioni di trasferimento, il datore di lavoro può provvedere a dare la dimostrazione delle ragioni giustificative della modifica mansionistica ai sensi dell’art. 2103, comma 2, c.c., seppur mai esplicate, direttamente in giudizio, assolvendo al relativo onere probatorio.
[16] Cfr. su tale posizione M. Brollo, op. cit., 71-72, che evidenzia come “La delicata questione si intreccia con il nodo irrisolto della comunicazione dei motivi del trasferimento del lavoratore e del possibile revirement della giurisprudenza alla luce delle nuove regole legali della forma e procedura di comunicazione del licenziamento individuale, da sempre vera e propria stella polare per l’individuazione dei limiti e della procedimentalizzazione dei poteri imprenditoriali”.
[17] F. Amendola, op. cit., 25, evidenzia come le conseguenze dell’inadempimento dell’obbligo formativo saranno essenzialmente risarcitorie, “anche se per il lavoratore sarà difficile allegare e provare il danno subito per la mancata formazione”.
[18]M. Brollo, Le mansioni: la rivoluzione promessa dal Jobs Act, in Labor, Il Lavoro nel diritto 2017, 6, 629, che osserva come, sebbene il legislatore del Jobs Act persegua l’intento di ridimensionare lo spazio per il sindacato giudiziario e miri ad affidare il ruolo primario alla autonomia collettiva, “l’ambito effettivo della manovra dipende dal contenuto materiale della regola sostanziale introdotta ex novo e pertanto va vagliato alla luce dei prodotti dell’autonomia collettiva vigente in malteria di inquadramento professionale”, ancora inadeguati alla nuova normativa con riferimento alla classificazione del personale. Cfr. ancora M. Falsone, op. cit., 17 e ss., che evidenzia come “la latitudine entro cui può estendersi oggi lo ius variandi è potenzialmente molto ampia perché il suo perimetro è indefinito”, essendo la contrattazione collettiva in condizione di ridimensionare il potere datoriale a favore dei lavoratori o, al contrario, di accrescerlo, con impatti diretti ed indiretti sulle norme dei commi 1, 2 e 4 dell’art. 2103 c.c. L’Autore evidenzia, tra l’altro, come già il solo aumento o la riduzione dei livelli di inquadramento abbia delle conseguenze presumibili, rispettivamente, a tutela o a detrimento della professionalità, in quanto è presumibile immaginare, ad esempio, che la riduzione del numero dei livelli comporti la riconducibilità ad essi di un maggior numero di mansioni, dal contenuto professionale inevitabilmente eterogeneo.
[19] In questo senso si sono espressi diversi autori, tra cui U. Gargiulo, Lo ius variandi nel nuovo art. 2103 c.c., in Riv. giur. lav., 2015, I, 623, secondo il quale il lavoratore avrà facoltà di rivendicare la copertura del posto resosi libero, al fine di riequilibrare livello di inquadramento e mansioni. Nello stesso senso, M. Brollo, Disciplina delle mansioni (art. 3), op. cit., 71. Cfr. inoltre A. Bellavista, Il nuovo art. 2103 c.c. nel Jobs Act, www.dirittisocialicittadinanza.org, 2015, 2 e ss., secondo il quale “l’assegnazione a mansioni inferiori risulta di carattere tendenzialmente temporaneo; sebbene non vi sia un termine finale di fatto essa potrebbe protrarsi all’infinito” nei casi di provvedimento assunto ai sensi del comma 2 o comma 4, mentre lo spostamento negoziato con accordo individuale ai sensi del comma 6 può avere carattere definitivo.
[20] In senso contrario a questa impostazione, si segnala F. Amendola, op. cit., 22, rilevando che il dato normativo non sembra offrire uno spunto testuale inequivoco a sostegno della conclusione della temporaneità della assegnazione in peius.
[21] F. Amendola, op. cit., 24, evidenzia come sarà estremamente complicato per il lavoratore impugnare un accordo di variazione in peius sottoscritto in sede protetta, negando la sussistenza dei presupposti specifici previsti dal comma 6 per accedere a tale tipologia di accordo. attestati come sussistenti.
[22] Parte della dottrina ritiene che il datore di lavoro che sopprima la posizione lavorativa del dipendente, prima di intimare licenziamento per g.m.o., sia tenuto a reperire soluzioni di ricollocazione non solo in mansioni equivalenti, ma anche in mansioni inferiori, stanti le previsioni dei commi 2 e 6 dell’art. 2103, da leggere con riferimento agli sviluppi della giurisprudenza di legittimità in tema, formatasi sul previgente art. 2103 c.c.. Cfr., in tema, l’ampia disamina operata da M. Salvagni, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo e l’obbligo di repêchage anche in mansioni inferiori nell’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale prima e dopo il Jobs Act, in Lavoro e prev. oggi, 2017, 5-6, 262 e ss., che evidenzia, in considerazione dell’orientamento giurisprudenziale e dottrinale che fa leva su un bilanciamento di valori costituzionali tra il potere d’iniziativa imprenditoriale e l’utilità sociale, come il datore di lavoro abbia l’obbligo di tutelare il posto di lavoro non solo in ragione di un adempimento contrattuale, ma “anche in virtù dei nuovi doveri civilistici ex art. 2103 c.c. che gli consentono la possibilità, in passato giuridicamente preclusa se non con alcune eccezioni tipizzate dalla legge, della salvaguardia dell’occupazione adibendo il lavoratore a mansioni inferiori”. Si manifestano aperti a questa lettura della norma M. Brollo, Disciplina delle mansioni (art. 3), op. cit., 42 e F. Amendola, op. cit., 23. In senso contrario, C. Pisani, La nuova disciplina della modifica delle mansioni, op. cit., 151, che ha sostenuto che non sia rinvenibile nel nuovo art. 2103 c.c. un obbligo per il datore di lavoro di esercitare lo ius variandi in pejus ex commi 2 e 4 per evitare il recesso del lavoratore, “essendo inammissibile che il “può” di cui al comma 2 diventi un “deve” in quanto l’esercizio di quel potere rientra nella libera scelta dell’imprenditore”. P. Sordi, La nuova disciplina delle mansioni dopo il Jobs Act, in I. Piccinini, A. Pileggi, P. Sordi (a cura di), Roma, 2016, 132-133, valorizzando la previsione del comma 5 dell’art. 2103 c.c. riformato, che prevede, in caso di adibizione a mansioni inferiori, la conservazione da parte del lavoratore del medesimo trattamento retributivo, con onerosità di una tale scelta per il datore di lavoro, evidenzia come dalla disposizione in parola “non può farsi discendere un generale obbligo per il datore di lavoro di assegnare al dipendente il cui posto di lavoro sia stato soppresso a mansioni inferiori (se disponibili) ai sensi e con gli effetti del secondo comma del nuovo art. 2103 c.c.”. Il datore di lavoro pertanto, nel caso decida di sopprimere il posto di lavoro, avrebbe solo l’onere di “proporre al lavoratore interessato la stipula di un accordo ai sensi del sesto comma dell’art. 2103 c.c.” prima di intimare il recesso. Cfr. negli stessi termini M. L. Buconi, op. cit., 48.
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